D’accordo che le grandi firme giornalistiche non ci sono più, ma perché sia noi che i Nativi Americani dobbiamo meritarci questi cronisti?
Per fortuna, probabilmente nessun Navajo legge i giornali italiani; almeno evitano di dare una scorsa al pezzo straordinario su di loro (1) comparso su Repubblica il primo marzo 2012. Speriamo nella generosità di autore e testata: non traducetelo. Grazie, restiamo tra noi poveri che abbiamo un spread leggermente in ripresa.
Perché non riesco a perdonare tal personaggio redattore? Perché sono stufo, siamo e sono stufi. Studiate, documentatevi e poi scrivete. Se vi resta oneroso, navigate: è gratis. Ma la risata quando vi seppellirà?
Parliamo del caso sollevato dall’articolo intitolato “I Navajo sul piede di guerra. Nel mirino il brand dei jeans”. Nella sostanza, una nota catena commerciale ha la straordinaria idea di chiamare “Navajo” una linea di alcuni prodotti d’abbigliamento. I Nativi si incacchiano, vincono due cause, ma pretendono giustamente di più perché la ditta mantiene sul mercato alcuni articoli.
Partiamo dalla illustrazione dell’articolo con tanto di dotta didascalia: “Manuelito uno dei capi storici della tribù dei Navajo”; ebbene caro redattore quello ritratto ed inserito nel pezzo a Manuelito proprio non assomiglia per nulla. La avvertiamo: i Nativi americani non sono tutti uguali, le first nations sono più di 500 e non sono fotocopiabili. Se non si offende e se ce lo permette le ricordiamo che l’uomo raffigurato non è nemmeno Navajo; trattasi di un Kiowa Apache (2).
Si chiama Essa Queta, meglio conosciuto come Peso o Pacer derivanti da Pay Sus. Non sappiamo bene la data di nascita, ma sappiamo che fece il grande viaggio nel 1875; fu uomo di pace. L’autore della foto si chiamava William S. Soule. Non vorremmo essere presuntuosi ma per dare un aiutino il Manuelito citato aveva i baffi. Chi cerca trova.
Andiamo al titolo sopracitato. Ci siamo chiesti: quale è il piede per scendere in guerra? Il mancino o il destro, non possono essere entrambi perché sarebbero piedi.
I Dinè non hanno voluto chiarire l’arcano come tutte le altre nazioni americane; se si prova a raccontarglielo ti ridono dietro. Pare ci siano innumerevoli e logorroiche discussioni tribali su quale piede usare per scendere dal letto ed evitare di dover fare guerra tutti i giorni.
Sembra facciano come i pinguini: saltano giù a piedi uniti. Quando la smetteremo con questa disinformazione forse aiuteremo veramente i Nativi. E per fortuna che non hanno dissotterrato la fantomatica ascia. Invece no, eccola riapparire nel finale dell’articolo non certo lunghissimo. “La nazione dei Nativi americani ha da tempo sotterrato l’ascia di guerra limitandosi a difendere i suoi diritti – almeno i pochi che le sono rimasti – in punta di diritto”.
Stereotipi duri a morire segno di una regressione o stagnazione culturale generale ancora molto diffusa. Nelle diciassette righe di articolo non manca lo svarione storico nella prosecuzione della frase sull’ascia di guerra.
Leggiamo: “Con più successo, c’è da dire, rispetto all’epoca in cui combattevano contro il settimo Cavalleggeri”. Caro articolista si tenga forte.
Il Settimo Cavalleggeri è divenuto famoso nel mondo per tre cose, oltre all’abituale servizio:
- averle buscate sonoramente al Little Big Horn il 25 giugno del 1876 sotto la guida del tenente colonnello (non generale) George A. Custer, ma i vincitori erano Lakota, Dakota, Nakota, Cheyenne ed Arapaho;
- aver massacrato un accampamento di Miniconjou in pieno inverno a Wounded Knee il 29 dicembre 1890;
- aver sostituito i cavalli con carri armati ed elicotteri che hanno alzato il livello di capacità distruttiva in Vietnam.
I Dinè hanno avuto la fortuna di incontrare altri civilizzatori che li hanno costretti nelle riserve, tra tutti il famoso Kit Carson (anche noto per essere il personaggio fumettistico amicone di Tex Willer).
In realtà fu colonnello che si dichiarava amico dei Nativi mentre fu artefice principale della deportazione della nazione affamandola con la
distruzione dei mezzi di sostentamento. Distrusse persino un pescheto con 5.000 alberi.
Per non farci mancare nulla nel sommario e nel testo spunta l’immancabile “pellerossa”. Detto affettuosamente, pellerossa sarà lei: sappia che non esiste alcuna etnia di colore rosso; se proprio le interessa il colore cutaneo vanno dal bianco all’olivastro scuro. Venga a conoscenza, comunque, che si tratta di termine dispregiativo e decisamente poco gradito, al pari di “negro” o “muso giallo”.
Non la prenda come attacco personale, non è il solo purtroppo; forse la colpa è nostra che non facciamo abbastanza per diffondere la cultura e la storia dei Nativi che sono e rimarranno i soli americani. Comunque grazie per aver sollevato il problema è inconcepibile che per denaro si possano chiamare Navajo un paio di mutande od una bottiglia di liquore.
Note:
1. Il nome originario è Dinè che significa Figli di dio mentre Navajo deriva dallo spagnolo e vuol dire Ladro. Sono la seconda nazione più popolosa dopo i Cherockee, che però sono più dispersi territorialmente. Seguonno nell’’ordine Sioux ed Ojibwa . Tutte e quattro rappresentano il 43 per cento della popolazione nativa.
2. Sono definiti anche Apache delle Praterie ed oggi vivono nel sud ovest dell’Oklhahoma. La tribù è federale ed è riconosciuta come Apache Tribe of Okhlahoma. Sono, inoltre conosciuti, con il termine orginario di Naisha o Naishan Dene, che significa Nostro popolo. Pur parlanndo una lingua diversa durante i grandi eventi tribali facevano parte del grande cerchio della nazione kiowa.
Sono d'accordo su tutto, grazie Pablo per
…questo post,